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La stoica impresa di una schiera di guerrieri per caso

Nel calcio del denaro, dei fuoriclasse, degli sponsor e dei diritti tv, sembra non esserci più spazio per le imprese sportive, quelle che ti fanno sognare, credere nella bellezza e nell’imponderabilità dello sport, perché alla fine la palla è tonda e può anche gonfiare la rete del più forte. Questo onirico desiderio di rivalsa, nel 2004, allo stadio Da Luz di Lisbona si tinge dei colori bianco e azzurro, della gloria di un popolo che ha tramandato la filosofia, le arti e pagine indelebili della storia, in poche parole, si tinge di Grecia. Per me, che sono di origine greca, quell’Europeo in Portogallo ha assunto diversi significati, è stato anche un modo per recuperare un rapporto quasi familiare con una terra che, in qualche modo, da sempre e per sempre mi richiama. È difficile dimenticare quell’estate, l’afa e tutta la famiglia riunita pronta a vedere le partite di una nazionale che sembrava assemblata quasi per caso, con la speranza di non subire troppi gol, e poche, se non nulle, aspettative.

Invece tutto ha avuto inizio, come la routine quotidiana, con un biscotto, quello che, ahimè, ha sancito la forza suprematista scandinava ai danni della regolarità e della sportività. Che cosa è il calcio se non lo specchio della società? E cosa è la società se non la trasposizione delle prototipiche idee umane?

Così da quella bruciante eliminazione ai gironi dell’Italia, scacciata troppo frettolosamente da un tacco volante di Dio Ibra, non rimanevano che le partite della Grecia da condividere con il ramo ellenico del mio albero genealogico, di fronte ad una moussaka o delle dolmades, respirando quel calore che ha unito un popolo più di ogni altro intrigo storico. La nazionale bianca e azzurra si affacciava alla competizione europea dopo 24 anni di assenza. La prima ed unica partecipazione agli europei, infatti era avvenuta grazie ad Alketas Panagoulias, nel 1980, mister delle prime volte dato che aveva portato la Grecia anche all’esordio alla fase a gironi dei mondiali, nel 1994. Tuttavia queste due esperienze erano state condite da zero successi e conseguenti eliminazioni al primo turno, per cui ci si attendeva che la storia proseguisse imperterrita su questo filone melanconico, di roboante decadenza. La Grecia impegnata nella preparazione delle Olimpiadi di Atene, già mostrava i primi segni di un potente cedimento economico, anche se mascherato dall’euforia generale, in più, si aggrappava come sempre alle manifestazioni sportive, per rinsaldare un’unità mai veramente cementata da anni di convivenza: paesaggi immensi, strade desolate, orizzonti sconfinati che mascherano etnie troppo orgogliose e forti per essere omogeneizzate dai soli stendardi di una bandiera.

Così, un uomo venuto da fuori, dalla Germania, da Essen, decideva di far leva sulla coesione più che sulla qualità di gioco e dei singoli per provare a strappare per la prima volta un risultato positivo in una competizione internazionale. Otto Rehhagel (CT), era Forte del suo pragmatismo e della sua decennale esperienza, infarcita di successi inattesi e grandi imprese, chiedere a chi ne ha santificato la figura con una statua a Brema o ad Essen (però a seguito dell’Europeo 2004), per poter puntare a qualcosa. Il resto l’avrebbe fatto il destino e l’arroganza e la supponenza di squadre ben più accreditate, come Francia e Portogallo.

Una vittoria all’esordio contro i lusitani, paese ospitante, senza possibilità di replica, basata su un canovaccio che recitava catenaccio e contropiede. Un 4-5-1 che si mascherava di 4-4-2 o 4-3-3, con il solo Charisteas a spingere la squadra in avanti e Karagounis ad illuminare il gioco, marcatura a uomo e tanta cattiveria agonistica: arrivare prima sulle seconde palle e correre per 3: queste le fondamenta del tempio creato da Rehhagel, che non ha mai fatto mistero di aver dato un’impronta intellettuale alla squadra, disdegnando il bel gioco in favore dei risultati. A tal proposito sono passati alla storia i numerosi commenti giornalistici di scherno rivolti al calcio giocato dagli ellenici, ma si sa che le parole vendono carta stampata ma poi il risultato è quello che conta. Prima partita vinta in una competizione internazionale all’esordio: questo riuscì a galvanizzare l’ambiente a tal punto da consentire di pareggiare contro la Spagna e strappare il pass per i quarti con un gol (Vryzas) valevole, in chiave differenza reti, contro la Russia. 4 punti, parità con la Spagna ma per gol fatti, sono i greci ad eccedere alla fase ad eliminazione diretta.

Henry e compagni il primo scoglio: cross pennellato dalla destra ed incornata di Charisteas nel sette. 1-0, sofferenza e lotta fino al triplice fischio. Dopodiché è Repubblica Ceca, una delle più belle sorprese della competizione, guidata da Cech, Nedved e Baros, che poi si confermerà capocannoniere del torneo, in stato di grazia. Ma nemmeno questa volta la differenza tecnica riuscì a farsi valere: 105’ sul cronometro, cross sempre dalla destra e lo stendardo difensivo Trayanos Dellas sigla il gol del successo.

La finale è esattamente la replica della prima partita, l’eterno ritorno, il cerchio della storia che si ripete, ma in maniera simile, lasciando spazio al caso di poter mettere la firma sulle pagine della storia stessa. Ciò nonostante, si presentavano due compagini diametralmente opposte dal punto di vista emotivo, il Portogallo pressato dalla necessità di vincere, vittima di anni di insuccessi, con le proprie stelle all’apice della carriera (Figo, Rui Costa, D’eco, Maniche, Ricardo Carvalho, ecc) ed un giovane Cristiano Ronaldo, desiderose di non rimanere solo dei puntini anonimi nel firmamento delle leggende e dall’altra uomini temprati alla lotta, alla sofferenza, che vivevano questa partita come i 300 spartani alle Termopili. E siccome l’epicità si tramanda nell’unicità dell’evento, non potevano permettersi di sbagliare, consci che quella assurda alchimia sarebbe svanita al triplice fischio....

65’ Sempre cross dalla destra da corner e Charisteas, l’Achille di questa particolare Iliade in chiave postmoderna, trafigge al cuore una nazione intera con un colpo di testa in anticipo.

Il fragore delle emozioni in Grecia lo si percepiva da casa mia e colmava quel gelido silenzio che aveva investito d’un tratto il Da Luz, che di luminoso, in quegli attimi infiniti per i portoghesi, aveva solo il nome.


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