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La rivoluzione azzurra

Osano oltre la coltre dell’ordinario i cuori tinti d’azzurro, affogati di luce, conquistano vette che lambiscono il Sole. La forza d’un popolo si schiude nell’inebriante certezza che qualcosa superi in potenza l’inevitabilità dell’oblio: le terre rossastre e polverose, i monti candidi e silenziosi, le pianure verdi e prospere: l’Italia che chiamò. E che siano dunque fatti gli Italiani, non al suon di baionette e moschetti, ma al tuonare sordo d’una sfera perfettamente insaccata in rete.


Il cuore, la lotta, la furbizia e il controllo non ci sono mai mancati. ‘Garra’ e ‘malandro’ non sono che un bel dire per ‘cazzimma’, invenzione partenopea esportata da tempo in tutto lo stivale. Ma per quanto l’estetica, l’estro e la creazione siano anch’esse antico vanto del genio italico, la nostra Nazionale non ne ha mai fatto un punto di forza, ingabbiata nell’insopprimibile lezione impartita dalla storia. Insopprimibile sì, almeno sino ad oggi…

Il Milan di Rocco e l’Inter di Herrera hanno infatti dominato il calcio degli anni ’60 (4 Coppe dei Campioni), interpretando alla perfezione il caro vecchio catenaccio. Ciò sarà d’esempio per tante squadre vincenti dei decenni a seguire. Questo atteggiamento difensivista ha accompagnato anche i massimi trionfi moderni degli Azzurri, che, seppur disponendo spesso di giocatori tecnicamente fenomenali, si sono sempre affidati ad una imperturbabile (per loro) agonica (per noi) attesa e ad un micidiale repentino contropiede.

(Il ringhio di Lorenzo Insigne dopo il gran goal contro il Belgio)


Addirittura il ‘santone’ Arrigo Sacchi s’è dovuto arrendere dinnanzi all’impossibilità di cambiare quella che ormai sembrava essere una caratteristica intrinseca al gioco italiano. Probabilmente il poco lavoro di preparazione concesso alle Nazionali ha determinato un ulteriore irrigidimento nella suddetta prassi, rendendola ancora più ardua da estirpare. Eppure una divampante luce s’è mostrata nell’ora più buia. Roberto Mancini ha compiuto un miracolo, una Rivoluzione totalmente inattesa. Se il cambio di strategia di Muhammad Ali, che devia dal float-sting sul dope-a-rope contro George Foreman, è l’emblema dell’adattabilità del genio umano, quello di Mancini è il manifesto dell’uomo come essere volto all’eludere ogni catena. Palleggio, pressing asfissiante, terzini alti, gioco dal basso, sono solo alcuni dei motivi per stropicciarsi ripetutamente gli occhi davanti al televisore del proprio salotto.


Il test match pre-europeo terminato 4-0 contro i Cechi aveva già chiarito che i meccanismi erano ben oleati, ma le ultime resistenze del classico, malevolo criticismo tutto italiano sono cadute solo con il doppio 3-0 rifilato a Turchia e Svizzera. Un dominio totale che solo Brasile, Spagna e Germania erano state capaci di dimostrare su palcoscenici di questo livello. Gli Azzurri sanno anche comandare il gioco, non solo soffrire; sanno essere belli, non solo vincenti. Se si pensa che solo 3 anni fa Bonucci, Chiellini, Florenzi, Bernardeschi, Immobile, Belotti, Insigne, Jorginho e un incolpevole Donnarumma non riuscirono ad avere ragione della modesta Svezia si ha un assaggio dell’opera meravigliosa dipinta dall’allenatore jesino. Le scelte del Mancio sono state perfette a cominciare dallo staff tecnino. Vialli, Salsano, Lombardo, Evani, Oriali, De Rossi hanno dimostrato ancora una volta le loro straordinarie qualità calcistiche e umane. È doveroso tributare un plauso scrosciante a loro, psicologi, tattici, fratelli maggiori. Un cambio di mentalità dunque sospinto da un ambiente positivo e familiare.


Ridicolizzare per 70 minuti il Belgio, stabilmente primo nel ranking UEFA da 3 anni, semifinalista mondiale, era già valso il prezzo della partecipazione emotiva. Perdiamo il nostro uomo migliore, Spinazzola, ma la forza del gruppo può sopperire a qualsiasi defezione. Siamo in semifinale, mollare ora non è concesso. Le scintille seminate dal Mancio sono diventate oramai incendi inestinguibili nel petto degli Azzurri. Ed è qui che il grande spirito di sacrificio d’un popolo, costretto per secoli al dominio straniero, trova libero sfogo. Non si può sfidare la Spagna al suo gioco, devi avere l’umiltà di accettare la sua superiorità di palleggio. La Roja ha disputato un ottimo match, 120 minuti di grande valore tecnico ma di scarsissima freddezza sotto porta e di immensi buchi difensivi. A Chiesa basta un’occasione per siglare il suo secondo, provvidenziale, goal all’Europeo. Luis Enrique inserisce finalmente una vera punta e trova il pareggio. Rigori. È incredibile come negli ultimi anni, da essere sentenza certa di dramma sportivo si siano trasformati in motivo di gioia nazionale. Comprendere il perché di questa svolta meriterebbe un articolo a parte e probabilmente presto troverà un suo spazio. Il migliore in campo, Dani Olmo, e il loro marcatore, Morata, sentono la pressione e si lasciano ipnotizzare da Gigio Donnarumma. Siamo in finale.

Lo scontro con gli Inglesi a Wembley sembrava sin dall’inizio inevitabile. Una partita leggendaria al termine d’un percorso eccezionale: cosa può suggellare un trionfo più di uno stadio iconico ammutolito, congelato dallo stupore?

(Wembley)


L’1-0 però gela noi. La scelta tattica di Southgate (3-4-1-2) sembra essere azzeccata: permette a Shaw di attaccare indisturbato la corsia sinistra ed siglare l'1-0 su un cross dell’altro ‘quinto’, Trippier, dopo soli 120 secondi. Una terribile visione cala dall’alto come una pioggia fittissima. Un altro 4-0 dopo quello del 2012, un’altra delusione terribile. Ma i nostri, seppur sbigottiti, non accolgono mai l’idea di arrendersi o snaturarsi. Gli Azzurri tornano immediatamente a macinare gioco, a muovere la palla velocemente negli spazi, a scambiare nello stretto senza paura. Gli Inglesi invece sono timorosi, alzano un muro davanti alla difesa correndo a perdifiato da un lato e dall’altro, impauriti come topi in trappola. Il secondo tempo è a senso unico, è solo questione di tempo. Al 67’ Emerson batte un calcio d’angolo da destra, il subentrato (ennesimo colpo perfetto del Mancio) Cristante la prolunga come può. La palla giunge rocambolescamente nei pressi di Marco Verratti che di testa la indirizza nello specchio. Pickford, in stato di grazia, para con un riflesso felino spingendo la palla contro il palo. Quella sfera che sino ad ora si è rifiutata di entrare in rete, sostenuta dal tifo di 60 mila inglesi festanti, va però incontro ad un uomo dal destino segnato. Un ragazzo che nel bene e nel male si è sempre schierato, che ha portato su di sé il peso di vittorie grandiose e sconfitte cocenti sempre con il medesimo stato d’animo. Leonardo Bonucci è quel destino ed aggredisce la sfera come ha sempre fatto, senza dubbi, con ferocia, imperturbabile. È lui a zittire i tre leoni e la famiglia reale, ora e per sempre. 1-1, che vinca il migliore.


Southgate non cambia tattica, persiste nella difesa a 5 e non sfrutta a dovere il grande talento della sua panchina. Gli Azzurri continuano a dominare ma la fortuna non aiuta. Di nuovo rigori, di nuovo cardiopalma. Siamo noi a battere per primi. Il boato degli Inglesi è assordante*, Wembley trema ma Mimmo Berardi no, goal. Kane incrocia con potenza, goal. Tocca al Gallo, apre il piatto ma il tiro non è abbastanza angolato, parata. Maguire insacca nell’incrocio tra le urla di uno stadio in estasi. È di nuovo lui allora a dover determinare la rinascita o la definitiva resa. Bonucci stavolta attende un attimo prima di avventarsi sulla palla, ragiona, cerca la soluzione più razionale. Alza la sfera quel tanto che basta per rendere ogni sforzo di Pickford inutile, goal. Rashford può però infliggere un colpo mortale. Gli occhi sono quelli di un ragazzo che si è visto catapultato in una finale di incommensurabile importanza solo per segnare questo rigore. Il peso di 56 milioni di Inglesi è sulle sue spalle e le gambe vacillano. Donnarumma è grande, la porta piccola, deve angolare al massimo, troppo: palo! Siamo di nuovo in corsa. Bernardeschi, il più criticato, disprezzato e sottovalutato dei nostri ha tra i piedi un pallone di cemento. Tira il rigore più intelligente, semplice ed efficace: centrale. Sancho, anche lui entrato solo per calciare il penalty, battezza un angolo ma Donnarumma sceglie lo stesso. Siamo avanti. Se segnato, il quinto rigore può regalarci la coppa. Sul dischetto si presenta un esile italo-brasiliano dallo sguardo generoso e il sorriso sincero. I suoi piedi cantano ed è stato proprio lui a portarci in finale con un rigore perfetto. Tutto lo stivale è in trepidazione, se c’è qualcuno a cui vorresti affidare un tiro così importante è proprio lui. Ricorsa breve, solito saltello, Pickford però rimane immobile, non va giù, sono istanti interminabili. Jorginho deve allora scegliere un angolo e sperare di avere abbastanza forza nelle gambe da angolare quanto serve. Incrocia, ma il portiere inglese è sulla traiettoria e stavolta la deviazione sul palo lo salva. Sembra l’ennesima beffa, erano tramortiti e non abbiamo assestato il colpo finale. Gli spalti di Wembley sono però stranamente confusi, non sembrano trovare quell’energia vibrante che ha accompagnato i primi rigori, come se Bonucci con la sua calma li avesse resi docili. Il prescelto per il quinto penalty è Saka, un ragazzo di 19 anni che ha stupito tutti per maturità, costanza e atletismo. Il suo viso però fa trasparire una tensione palpabile. I suoi occhi non sono quelli di una tigre, ma più quelli di una preda. È Gianluigi Donnarumma ad essere imperscrutabile, concentrato al massimo sul suo unico dovere: parare un altro tiro. Il ragazzo londinese apre il piatto, la palla esce dal suo piede placida, troppo per poter avere la meglio di uno come Gigio. Il lato sinistro scelto è quello giusto. Parata. Il portiere di Castellammare si alza immutato in viso. Non una smorfia, non un segno, è solo pronto a ripetere la sua routine di parate. Non sa che ha regalato a sé e al suo popolo il trionfo. È solo la corsa sfrenata dei suoi compagni ad accendere in lui la consapevolezza di quanto accaduto. Le sue emozioni possono allora librarsi finalmente nel cielo di Wembley assieme a quelle degli altri pochi italiani assiepati sugli spalti. Siamo campioni d’Europa, 53 anni dopo la prima e, sino ad ora, unica volta. Capitan Chiellini può finalmente alzare quella Coppa europea che gli è sfuggita ben tre volte, suggellando la sua carriera meravigliosa.


L’Italia ha vinto e lo ha fatto sapendo cambiare, sfruttando tutte le sue immense qualità grazie alla visione di un solo uomo contro tutti. Un uomo che incantava in campo ma non riusciva proprio a frenare quel suo temperamento ribelle. Un uomo che ha saputo lavorare su sé stesso raggiungendo una pace interiore tanto potente da irradiarsi in tutti coloro che gli sono attorno. Un uomo che ha fatto dell’estetica e della sua applicazione al trionfo una ragione di vita: Roberto Mancini. E allora non c’è altro da aggiungere se non

Grazie Roberto.


*https://www.youtube.com/watch?v=WsdUpDpuAXE

(I rigori visti dalla curva italiana)

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