L'ultimo scudetto granata
Una sinfonia interrotta, il cielo stellato nascosto tra le nubi, il silenzio assordante d’una realtà crudele. 1949, il grande Torino è di ritorno da un’amichevole a Lisbona. Francisco Ferreira aveva convinto il capitano Valentino Mazzola a giocare un match contro il suo Benfica; il centrocampista portoghese era prossimo al ritiro ed alquanto preoccupato per il suo futuro. All’epoca il campionato lusitano era ancora dilettantistico e i giocatori non si arricchivano affatto: organizzare un’amichevole contro la più forte squadra del Mondo gli era parsa una grande idea per regalarsi un pensionamento dignitoso. Valentino prese a cuore l’incerto destino del suo collega e persuase Ferruccio Novo ad accettare la proposta. Finito il match i ragazzi granata salirono sul primo volo per tornare a casa, ma quell’aereo non atterrerà mai, si schianterà contro la collina di Superga, avvolto da una fitta nebbia e una pioggia battente. Una tragedia che ha inevitabilmente cambiato per sempre il volto del Torino Football Club, consegnandogli quell’alone di melanconia e misticismo che persiste tutt’ora. Dopo anni di incertezza e la prima retrocessione in serie cadetta, un imprenditore mantovano, Orfeo Pianelli, acquista il club dando il via ad una lenta e meditata ricostruzione. L’arrivo di Nereo Rocco e quello di Gigi Meroni faranno sognare nuovamente i cuori granata, ma anche stavolta sarà un destino tragico e beffardo ad avere la meglio. I suoi compagni alzeranno la Coppa Italia, il primo trofeo del dopo Superga, senza di lui, morto in un assurdo incidente stradale pochi mesi prima. Il Toro conquista un’altra Coppa Italia 3 anni più tardi, nel ’71, confermandosi tra le migliori squadre del nostro campionato, ma la vera svolta arriva nel ’75, quando l’ex terzino del Milan Gigi Radice sostituisce Edmondo Fabbri. Gigi è un uomo schivo, senza orpelli, all’apparenza un duro, ma in verità incredibilmente sensibile. Quei valori autenticamente popolari di coriacea dedizione alla fatica l’hanno forgiato sin dalla tenera età, consegnandogli una tempra ed un portamento da tradizionale sergente di ferro. Eppure il Radice allenatore è un innovatore, intuisce perfettamente la modernità del calcio totale olandese e comprende che, senza un nuovo adattamento tattico, il famoso catenaccio italiano verrà presto spazzato via. Saranno lui e Giovanni Trapattoni i primi a teorizzare la ‘zona mista’ che diverrà il marchio di fabbrica del nostro calcio sino alla rivoluzione visionaria di Arrigo Sacchi.

(Radice e Trapattoni)
Le sue squadre giocano con la classica linea difensiva a 4 con un libero che imposta, uno stopper puro, un terzino con compiti più difensivi ed uno (solitamente il sinistro) con finalità più offensive. Il centrocampo è composto da un mediano di copertura, un’ala destra tornante che deve armonizzare i due reparti, una mezzala classica che, come una freccia impazzita, deve inserirsi centralmente tra i difensori avversari ed infine un regista/fantasista che organizza il gioco e serve il pallone tra le linee, libero di inventare e sciolto da dettami tattici. In attacco le due punte spesso si scambiano di posizione cercando di eludere la marcatura a uomo avversaria. Talvolta uno occupa addirittura lo spazio dell’ala fluidificante, permettendo così a quest’ultima di spingersi in avanti e di dialogare con l’altra punta. Se un giocatore è occupato nella fase offensiva viene prontamente sostituito da un suo compagno nella marcatura a uomo, in una continua rotazione perfetta. Il pressing è a tutto campo, il portatore di palla deve essere continuamente aggredito. Per intenderci, questo sistema, è l’antesignano del moderno 3-5-2 del Conte juventino, dove gli inserimenti centrali delle mezzali (Vidal, Pogba) e la spinta continua sulle fasce (Liecsteiner, Asamoah) sono resi efficaci dalla visione di gioco e dal talento estemporaneo del regista centrale (Pirlo) e del libero (Bonucci). Per poter attuare al meglio il suo gioco, Radice acquista due giovani prospetti: Patrizio Sala (mediano) dal Monza e Eraldo Pecci (regista) dal Bologna, ai quali, appena ventenni, affida le chiavi del centrocampo. Con questi rinforzi la rosa è pronta a lottare per i vertici della classifica. Il portiere è il 30enne Castellini, detto il giaguaro, vecchia conoscenza di Radice che lo aveva allenato ai tempi del Monza, dove conquistarono una storica promozione in serie B. In difesa ci sono l’esperto Santin, il roccioso Mozzini, l’elegante Caporale e l’instancabile Salvadori. A centrocampo Claudio Sala, altro suo giocatore ai tempi del Monza, arrivato dal Napoli nel 1969, i già citati Patrizio Sala ed Eraldo Pecci che dimostreranno il loro grandissimo valore e la forte mezzala Renato Zaccarelli, che sarà una spina nel fianco per tutte le difese avversarie. In attacco infine i gemelli del goal: Ciccio Graziani e Paolo Pulici, probabilmente la coppia offensiva più iconica del calcio italiano.

(Graziani e Pulici)
La squadra titolare sarà sempre questa, con un’unica alternanza tra Santin e il compianto Gorin in difesa. Con queste premesse nulla è impossibile, Gigi e i suoi ragazzi lo sanno benissimo.
La stagione non inizia al meglio, una sconfitta per 1 a 0 a Bologna sembra ridimensionare subito le ambizioni dei granata. Ci pensa però Pulici, sette giorni più tardi, a scacciare ogni dubbio con una tripletta al Perugia. Puliciclone segnerà 7 goal nelle prime 6 giornate di cui 1 all’Inter e 2 al Napoli. È chiaro sin da subito che la rivale per la vittoria finale sarà la solita Juventus, il contraltare perfetto del Torino: loro, così tormentati e invisi agli dei, gli altri, immagine della consapevolezza di sé, privi di qualsiasi incertezza e perfetti depositari di quella cultura dominante che inebetisce le masse al grido della vittoria. La partecipazione emotiva dell’essere granata non ha nulla a che vedere con i giochi di potere o con la necessità della gloria tutta degli Agnelli, il Toro è lì solo per sapersi ancora vivo, per riscoprire la sua essenza dopo Superga, dopo Meroni, dopo l’umiliazione della serie B. I ragazzi di Gigi sconfiggono la vecchia signora all’8ª giornata 2-0, con i goal dei suoi due bomber, superando così, non solo gli eterni rivali, ma anche quel complesso che, insieme al sudore, impregna la loro maglia: la consapevolezza che il paragone con quel loro passato non può che divorarli. La striscia positiva continua, vincono 7 partite, ne pareggiano 2 e perdono solo con il Perugia. La terza sconfitta arriva con l’Inter, 1-0 a San Siro. La Juve continua a volare e il Torino si ritrova di colpo a -5, con poche speranze di risalire la china. L’ambiente però continua a crederci, anche se nessuno ha il coraggio di ammetterlo davanti alle telecamere. L’allenatore brianzolo non nomina mai lo scudetto, definendolo, con la sua distinta eleganza, ‘quella certa cosa’, ma nello spogliatoio infonde costantemente coraggio nei suoi. La rimonta inizia alla 22ª giornata, quando la Juve perde contro il Cesena appena prima dello scontro diretto. Le due concittadine scendono così in campo con soli 3 punti a separarle. Il Toro vincerà quella partita 2-1, ma gli verrà assegnato il 2-0 a tavolino per un petardo che colpisce in pieno il giaguaro Castellini. La 23ª è quella del sorpasso, l’Inter ferma i bianconeri e i granata battono 2-1 il Milan con un goal di Graziani ed uno del giovanissimo Garritano, scelto per far rifiatare i gemelli del goal. Le due compagini torinesi rimangono appaiate a solo 1 punto di distacco all’ultima giornata. Il Torino affronta il Cesena in casa con più di 64 mila sostenitori febbricitanti sugli spalti. Per tutto il campionato lo Stadio Comunale è stato un fortino, 14 vittorie su 14 partite. La Juventus invece sfida in trasferta un Perugia senza più obbiettivi. Al 61’ Pulici segna in tuffo il goal della liberazione, ma dopo soli 10 minuti Mozzini, su un innocuo cross in area, spinge la palla nella sua stessa rete. Sugli spalti si seguono con incredibile trepidazione gli ultimi minuti da Perugia. Curi inaspettatamente ha portato in vantaggio i Grifoni al 55’ e la Juve sembra non reagire. Il match di Torino si chiude sul pari, Gigi Radice, rapito dai suoi ideali stacanovisti, appare torvo, rattristato da quest’esito che rovina la possibile striscia casalinga perfetta; non si rende conto di essere campione d’Italia finché il giornalista della domenica sportiva, Paolo Frajese, non glielo chiarisce. Il popolo granata è in estasi, può finalmente abbandonarsi ad una gioia incontenibile ed ad un pianto catartico che cercano da 27 anni. I ragazzi del ‘49 sono stati finalmente onorati ed è impossibile non volgere lo sguardo a quel loro maledetto colle, non guardarsi attorno confusi, alla ricerca di quelle sensazioni persesi nel tempo ed appena ritrovate. Superga ha un richiamo troppo forte e la festa granata inizia proprio da lì, da un cammino che si confonde tra una marcia trionfale ed un pellegrinaggio sacro, nel meraviglioso e malinconico tentativo di far sapere a Valentino ed ai suoi che il Torino, finalmente, è tornato grande.