Fantantonio, l'assolo del Destino
Sottrarre il proprio incespicare mortale al tocco del Fato è solo vaga illusione d’un uomo che ha superato pochi inverni. Ἀνάγκη è lì ben prima d’ogni pulsare nelle vene, d’ogni respiro spezzato, di ogni plastico desiderio. Necessità precede tutte le possibili scelte incatenandole in un istante essenziale ad una unica natura. Fantantonio lo sa bene. Mette sempre subito in chiaro che il suo Genio è opera d’una forza tanto inarrestabile quanto impercettibile: ‘madre natura’, una cieca scintilla che lieve, come un fiore di ciliegio al vento, si libra nel caos.
Quella sua strada verso l’Olimpo del calcio pare essere già annunciata dal primissimo segno: venire alla luce poche ore dopo il trionfo dei ragazzi di Bearzot. Nella scelta del nome suo padre propenderà fino all’ultimo per ‘Paolo’, l’eroe delle notti spagnole, ma la devozione di sua mamma per Sant’Antonio avrà la meglio.
Le catene del suo Destino non saranno però solo quelle del talento. Nascere in una terra dimenticata, antica culla di incontro alle porte d’Oriente, costringe ad affinare la malizia, ad essere perennemente vigile e a nutrire lentamente il proprio ego soffocato. Essere tra gli ultimi spinge allora a credere in sé sino alla superbia, ben presto coscienti che la salvezza è nelle sole tue mani, o come più spesso avviene in questi scorci lontani, nei tuoi soli piedi. I muri candidi ed irregolari della città vecchia accompagnano le sue prime sponde, le ombreggiature delle Chiese maestose i suoi controlli leggiadri e il silenzio dell’abbandono i dribbling beffardi. A 7 anni è già evidente che Antonio non è come tutti gli altri. I ragazzini di Bari Vecchia se lo litigano per le consuete partitelle e le dispute si risolvono sempre in vere e proprie aste. 2-3000 mila lire a volte non bastano ad assicurarsi le sue giocate. Sua madre e suo zio riconoscono la sua eccezionalità e riescono ad ottenere un provino alla ‘Pro Inter’ di Tonino Rana, storico allenatore giovanile del capoluogo pugliese. I fondamentali del piccolo sono già perfetti, Tonino non crede ai suoi occhi, quel bambino magro e dallo sguardo furbo sembra essere un tutt’uno con la sfera. Pur non essendoci una squadra della sua età accetta di accoglierlo, aggregandolo all’U10.

La sua manifesta superiorità ridicolizza gli avversari, la sua arroganza li umilia e Tonino non può nulla per frenare le sue derive. Antonio catalizza sin da subito il suo fuoco magico a servizio della vendetta, incapace di gestire quel carattere fumantino che spesso nasce dalla voglia di rivalsa. Il giovane non vuole conquistare il Mondo, vuole distruggerne tutte le regole, essere perennemente in rivolta, dimostrando di non accettare quel sistema tribale che ingiustamente l’ha costretto alla fame. Antonio cresce a suon di tunnel e scherzi infantili, forte della totale devozione che la squadra gli deve. In poco tempo il Bari si accorge di lui. È questo l’ovvio viatico per realizzare il suo sogno di liberazione. Il ragazzo continua ad incantare, illumina ogni pallone che tocca ed il suo nome inizia a correre lungo tutta la penisola. Il rossastro dei campi in terra si trasforma velocemente nel verde smeraldo della serie A. A 17 anni è già pronto per il grande salto. L’occasione arriva l’11 dicembre del ’99, Eugenio Fascetti lo fa esordire in un derby contro il Lecce perso per 1-0. La prestazione gli vale comunque il posto da titolare nella difficile partita successiva. All’87º minuto il risultato è fermo sull’1-1. l’Inter sta cercando di avere ragione d’un Bari indomito. Perrotta recupera palla in difesa, nessuno lo pressa, le gambe sono pesanti e di ripartire non se ne parla. Simone alza allora la testa, vede chiaramente il ragazzetto della primavera attaccare come una freccia lo spazio in profondità, lo asseconda. Antonio, nell’incoscienza d’un talento superiore, stoppa quella palla potente con il tacco, senza indugi, continuando a puntare la porta. Laurent Blanc e Panucci lo stanno inseguendo, sono pronti ad uccidere ogni bella speranza nelle sbucciature d’un tackle, ma il Mondo intorno a lui non esiste più. Il ragazzo non può fermarsi, esiste un unico imperativo: correre verso quella rete, correre verso quell’attimo che gli sta promettendo l’eterna libertà. La palla esce docile da quel primo controllo fatato, gli si poggia sulla fronte; la spizzica appena allungandola quel poco che serve per incollarla al suo scarpino sinistro. Un tocco di destro per rientrare, uno di sinistro per seminare le ultime resistenze nerazzurre e... goal. Un San Nicola gremito, come solo in occasione di rivalsa, esplode di cieca immedesimazione. Erano, sono e saranno, ancora e sempre, tutti in quella corsa disperata, nei passi lievi e tristi d’un uomo ingannato dal Destino. È in quell’attimo frenetico che Antonio rinasce Fanta, sconfiggendo l’invisibilità che fino ad allora lo aveva tormentato. La gente che conta adesso lo avvicina, Matarrese gli regala la sua prima macchina e le donne iniziano a rincorrerlo: in pochi istanti la miseria lascia spazio alla sola ipocrisia. Basta un altro anno con la maglia biancorossa per consacrarlo definitivamente nell’elité del calcio mondiale. La Roma si aggiudica l’asta che segue e stavolta per strapparlo agli avversari poche lire non bastano, ne servono 60 miliardi. Gli anni nella capitale sono specchio della sua carriera: una folle corsa su una montagna russa. In campo delizia ed incanta, lui e Totti parlano la stessa lingua, si capiscono al volo con un leggero cenno dello scarpino. Ma il ragazzo ribelle è ancora lì e nel momento meno opportuno prende di colpo il sopravvento. Le corna all'arbitro Rosetti nella finale di Coppa Italia sono l’apice del disastro. La dirigenza inizia a non tollerare più le sua continue bambinate e il presidente Sensi lo redarguisce per un’ultima volta venendo di contro schernito ed insultato. Il suo scudo di sufficienza gli da però nuovamente ragione. Può essere altezzoso, irriverente e cattivo quanto vuole finché il suo piede destro metterà tutto in ordine. Il più grande club della storia del calcio è pronto ad offrirgli un contratto stellare, il Real Madrid dei Galacticos vuole lui, quel ragazzino senza speranze condannato ad una vita di stenti e delinquenza. Eppure Antonio è lì e sembra dire all’Universo che stavolta ha vinto lui. Il castello di gloria e celata perdizione che fu di Di Stefano, di Puskas e Butragueño adesso è suo. L’abbigliamento che il fantasista propone alla conferenza stampa di presentazione è premonitore del suo invariato atteggiamento vanaglorioso. Antonio si perde presto in questo caos di fama e ricchezza, inconsapevole che la boria ormai non è che deleteria. Ma chiedergli di più sarebbe stato semplicemente folle. Lui era questo, e il Madrid è il Madrid. Antonio aveva bisogno di essere accolto, compreso ed aiutato, ed i Blancos non ne sono capaci. Loro sono l’apice d’una vita di sacrifici e se non sei pronto a lottare, a sputare sangue, qualcun altro prenderà il tuo posto ancor prima che te ne accorga. Cadere dalla vetta è immensamente fragoroso ma, alle volte, può rivelarsi altrettanto salvifico. Gli amori della sua vita sono difatti dietro l’angolo. Genova e Carolina sono i primi ad accettare e a capire Antonio fino infondo, lo spingono a lavorare su di sé, a liberarsi da quegli infidi demoni che lo hanno sempre torturato. Fantantonio sembra nascere di nuovo ed in coppia con Pazzini, a suon di assist e goal, riporta la Sampdoria in Champions League compiendo un vero miracolo. Il treno verso l’Eden del calcio è ormai passato, i sogni di chi credeva che fosse destinato al pallone d’oro sono svaniti da tempo, ma lui continua a fare quello che ama: mettere al servizio della gioia il suo talento smisurato.

Ma la redenzione è una strada infinitamente tortuosa ed Antonio a tratti sembra non farcela. Quel ragazzino che in campo poteva finalmente esprimere tutta la sua volontà di potenza riemerge ancora in troppe occasioni: il lancio della maglia a Pierpaoli e le minacce di ripercussioni negli spogliatoi, il litigio a metà stagione con Del Neri, l’elegante epiteto ‘vecchio di m..’ in risposta al presidente Garrone… Il suo credo di estrema trasparenza e sincerità emotiva non crolla, pur continuando a non dare alcun frutto. Sono allora nuovamente i suoi piedi a dargli l’ennesima chance. Il Milan di Berlusconi e Galliani è pronto a dare l’ultimo colpo di coda e sceglie Cassano per sostituire un Ronaldinho ormai attempato e troppo dedito alle donne e alla cachaça. La sua parentesi al Milan gli regalerà lo scudetto, dipingendo a tratti grande calcio al fianco dell’inarrestabile Zlatan Ibrahimovič. I tempi bui sembrano ormai alle spalle, la nascita del suo primo figlio pare avergli dato quella maturità e serenità che anela da sempre. Nell’estate del 2012 Prandelli gli consegna le chiavi della nazionale all’Europeo polacco-ucraino. Il movimento ‘Mitt a Cassan’ guadagna finalmente consensi in tutta la Penisola ed Antonio non delude. Gli Azzurri sfiorano l’impresa perdendo solo in finale contro una Spagna leggendaria. Il fenomeno di Bari Vecchia è pronto a ricominciare, stavolta dal suo primo amore: l’Internazionale di Milano. I 15 assist e 9 goal stagionali non permettono però ai nerazzurri di evitare l’ennesimo tracollo del post triplete. Nel mercato estivo la dirigenza tenta di tutto per risollevare le sorti della squadra. Accecata dalla fretta e dall’orgoglio cede Cassano al Parma per arrivare al ventunenne Belfodil. Fantantonio si accasa in Emilia con grande serenità svolgendo egregiamente il suo compito di faro in mezzo al campo. I suoi 12 goal, 7 assist e le tante giocate da fuoriclasse trascinano il Parma al 6º posto. Il club ducale però non parteciperà all’Europa League per alcuni pagamenti mancati. È l’inizio della crisi che porterà al fallimento della società. A 33 anni Antonio è nuovamente in balia delle onde e ancora una volta è il porto di Genova ad offrirgli riparo. La Sampdoria lo accoglie come un figlio ma il suo smalto non è quello dei bei vecchi tempi. L’ennesima ed ultima cassanata mette fine ad ogni rosea velleità. Un litigio con l’avvocato di Ferrero, che aveva strigliato la squadra dopo un derby perso per 3-0, lo porta all’esclusione dalla rosa. Il sipario sulla sua folle carriera si chiude così, nella mai sopita sensazione di incompiutezza che continua a tormentarlo. Ma Antonio ha poche colpe, prigioniero del destino e del tempo, che celere ed impietoso non offre mai ai suoi figli più sensibili una seconda opportunità.
Si potrebbe giudicare in mille modi la sua parabola calcistica ed esistenziale, ma sarebbe tutto vano. Più rilevante è invece porre l'attenzione su altro: la fascinazione che noi tutti subiamo da parte di un modello, semplice, perfetto al quale si dovrebbe immancabilmente tendere, sottraendosi al proprio vissuto e al proprio esserci. Il modello è in realtà pura illusione, non esiste affatto, esistono gli uomini, le loro storie e le debolezze che gli si impongono, e chi si ostina a credere che per ‘realizzarsi' si debba raggiungere una fatidica eccellenza oggettiva vivrà soltanto anelando il nulla.
Buona fortuna Antonio.